Panthera leo leo

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Leone berbero o dell'Atlante
Leone dell'Atlante fotografato in Algeria nel 1893
Stato di conservazione
Estinto (1942)[1][2]
Classificazione scientifica
Dominio Eukaryota
Regno Animalia
Sottoregno Eumetazoa
Superphylum Deuterostomia
Phylum Chordata
Subphylum Vertebrata
Superclasse Tetrapoda
Classe Mammalia
Sottoclasse Theria
Infraclasse Eutheria
Ordine Carnivora
Famiglia Felidae
Sottofamiglia Pantherinae
Genere Panthera
Specie P. leo
Sottospecie P. l. leo
Nomenclatura trinomiale
Panthera leo leo
(Linnaeus, 1758)
Sinonimi

Felis leo Linnaeus, 1758
Panthera leo berberisca

Nomi comuni

Leone dell'Atlante
Leone berbero
Leone di Barberia
Leone nubiano

Il leone dell'Atlante o leone berbero (Panthera leo leo, Linnaeus, 1758) è una sottospecie[3] di leone originaria del Nordafrica e attualmente estinta in natura.[1][2]

L'ultimo esemplare selvatico, di cui si abbia notizia, fu abbattuto nel 1942 in Marocco, presso il passo montano di Tizi n'Tichka, nell'Atlante marocchino.[4] Si ritiene possibile che alcuni esemplari, di vario grado di ibridazione, sopravvivano ancora in cattività come nel caso dei leoni dello zoo di Témara, una città marocchina nelle vicinanze di Rabat.[5] Un raro esemplare di leone berbero[6] tassidermizzato, preso nell'anno 1812, è conservato nel museo di Storia Naturale dell'Università di Pavia. È altresì presente un esemplare di leone berbero tassidermizzato al Museo di Storia Naturale Farraggiana di Novara. Sulla base di questa ipotesi sono stati creati progetti quali il North African Barbary Lion and the Atlas Lion Project (varato nel 1978) che studiano la possibilità di reintroduzione del leone berbero in natura tramite riproduzione selettiva degli esemplari in cattività.[7]

Caratteristiche fisiche ed etologia[modifica | modifica wikitesto]

Leone berbero in un giardino zoologico
Leone berbero nel Lincoln Park Zoo nel 1900

Il leone dell'Atlante era per dimensioni la sottospecie più grande dopo il leone delle caverne e quello americano, diffusi, rispettivamente in Eurasia e in America, durante il Pleistocene.

I maschi avevano un peso compreso tra i 272 e i 300 chilogrammi per una lunghezza media di 3,50 m;[8] dimensioni comparabili con la tigre siberiana. Un leone dell'Atlante ucciso in Algeria nel 1840 era così pesante che tre uomini insieme non riuscirono a spostarlo[9]; Atlante, un leone proveniente dall'omonimo monte tenuto in cattività dal sovrano del Baroda (India) nel 1899 venne descritto come "molto superiore per dimensioni e coraggio ai leoni dalla criniera nera del Sud-Africa", "l'incarnazione del massimo potere e di muscoli adamantini" ed è scritto che appariva più possente del suo rivale, un enorme maschio di tigre del Bengala di nome Simla, con cui fu costretto a combattere. Lo scontro, comunque, vide poi trionfare la tigre. Maitland, un colonnello inglese che aveva cacciato a lungo in Sud-Africa, rimase scioccato alla vista di Atlante che descrisse come "un mostro, così grosso da poter uccidere un elefante e mangiarselo con le zanne e tutto".[10]

Un tratto caratteristico che ha reso famoso il leone dell'Atlante, oltre alle dimensioni, è la sua criniera. Aveva una criniera molto folta e di colore scuro (spesso nero) che ricopriva tutto il collo, il petto e scendeva per lo stomaco per arrivare fino all'inguine, quasi alle gambe. Solamente i leoni del Capo e i leoni asiatici erano noti per avere criniere tanto sviluppate. Prima che la biologia dei leoni fosse studiata con maggiore accuratezza, si è ritenuta che la folta criniera fosse una caratteristica distintiva della sottospecie. Si è scoperto in seguito che non è così. Lo sviluppo o meno della criniera di un leone è determinato da diversi fattori tra i quali il livello di testosterone e la temperatura ambientale. Qualsiasi sottospecie di leone può sviluppare una criniera più folta del normale se vive in condizioni ambientali fredde, come dimostrano i leoni tenuti in cattività in luoghi dal clima umido o freddo. Di conseguenza, se il leone dell'Atlante aveva una folta criniera, era solo perché viveva sulle montagne dove la temperatura è assai più bassa rispetto alle savane. Lo dimostra anche il fatto che, a giudicare dalle illustrazioni sui bassorilievi e sui vasi, i leoni che vivevano in Egitto pur appartenendo alla stessa sottospecie non presentavano una criniera così folta.[11]

In base agli studi di filogenetica molecolare, l'antenato comune dei leoni africani e asiatici è vissuto tra i 200.000 e i 55.000 anni fa e quindi la separazione genetica tra le sottospecie africane è avvenuta in questo arco temporale ovvero tra la fine del Pleistocene medio e l'inizio dell'ultima glaciazione. Il leone berbero come sottospecie distinta si è evoluto più recentemente, non più tardi di 100.000 anni fa. L'areale del leone berbero era piuttosto ampio comprendendo tutta la fascia costiera settentrionale dell'Africa e, in particolare, il Maghreb dal Marocco alla Libia. In misura minore era diffuso anche in Egitto.

La gran parte delle zone di caccia del leone dell'Atlante sono ora desertiche o semi-desertiche, ma tutta la regione sahariana ha subito nelle ultime centinaia di migliaia di anni delle intense variazioni climatiche[12] che hanno visto l'alternarsi di fasi in cui la desertificazione era minore di quella attuale.

Si ritiene che lo stile di predazione fosse simile a quello degli altri felidi (ovvero dopo aver preso tra le fauci il collo della vittima). Tra le prede abituali vi erano l'ammotrago, il cervo berbero, l'asino selvatico africano, il cinghiale, la giraffa, il dromedario e diverse specie di antilopi, gazzelle e orice. Prima che si estinguesse, l'elefante nordafricano poteva essere una potenziale preda, particolarmente gli esemplari giovani (come succede con gli altri leoni ed elefanti nel centro-sud dell'Africa) ma occasionalmente anche gli adulti, visto che le cronache romane riportano che tali pachidermi erano più piccoli degli elefanti indiani (e quindi dei più noti e ancora viventi elefanti africani della savana)[13] e quindi potenzialmente vulnerabili agli attacchi di un gruppo di leoni di grandi dimensioni. In Egitto, altra potenziale preda poteva essere l'ippopotamo, anch'esso predato nelle altre zone dell'Africa dai leoni locali.

Per catturare questi animali il leone dell'Atlante doveva competere con l'orso dell'Atlante e il leopardo dell'Atlante, che sono ugualmente scomparsi (il primo) o in via di estinzione (il secondo) dall'Africa settentrionale.

Al pari degli altri leoni, era un animale sociale che viveva in branchi composti da numerose femmine e i loro piccoli, custoditi dai maschi più grandi e più forti che avrebbero garantito la sicurezza del gruppo. Negli anni in cui la sottospecie si avviava verso l'estinzione, i leoni vennero avvistati in gruppi sempre più piccoli, spesso solitari o in coppia.

Declino ed estinzione in natura[modifica | modifica wikitesto]

Il leone berbero in una illustrazione del 1898.

A partire dalla metà del III millennio a.C., il Sahara, fino ad allora occupato da una savana simile a quella dell'Africa orientale, cominciò ad assumere l'odierna conformazione. Insieme alle piante sparirono anche i grandi erbivori, e con loro i carnivori che li cacciavano. L'areale del leone berbero si ridusse progressivamente a tre zone distinte, separate dal deserto: la catena montuosa dell'Atlante e la Tripolitania, il massiccio del Tassili n'Ajjer e la Nubia.

Il primo luogo in cui l'animale si estinse fu il delta del Nilo. Il leone era considerato sacro alla dea Sekhmet e questo evitava la caccia indiscriminata (solo il faraone, ritenuto un dio, poteva cacciare i leoni). Anche altri popoli nordafricani lo consideravano un animale sacro per le sue forza e ferocia. A mano a mano che la loro civiltà si estendeva lungo il corso del fiume, i leoni arretravano. Per tutto il periodo romano, il leone nord-africano venne importato in migliaia di esemplari all'anno e utilizzato estensivamente nei combattimenti circensi contro altre fiere.

La vasta opera di cattura in epoca romana causò una prima drastica diminuzione nella popolazione. Dopo un periodo di ripresa a seguito della caduta dell'impero romano, l'espansione araba nel Nord Africa comportò un nuovo declino del leone. Con l'aumento della presenza antropica e la riduzione dell'habitat, la scarsità delle prede spinse il leone dell'Atlante a spostare la sua attenzione verso gli animali domestici come asini, capre e dromedari contribuendo in questo modo alla sua persecuzione.

Con l'introduzione delle armi da fuoco, il leone berbero - oramai notevolmente ridotto - si estinse nel XVIII secolo in Libia, e a metà del XIX secolo nella Nubia e nel Tassili. Nel 1891 scomparve dalla Tunisia e nel 1893 dall'Algeria. Oramai presente solo in aree ridotte del Marocco, alcuni esemplari vennero rinchiusi nei giardini zoologici per evitare un'estinzione che già si avvertiva imminente.

Nel 1922, la Casa Reale del Marocco rinchiuse nel serraglio reale di Rabat un branco di leoni dell'Atlante, i cui discendenti furono ceduti nel 1973 al neocostituito zoo di Témara.

L'ultimo esemplare in libertà fu probabilmente il maschio abbattuto nel 1942, anche se avvistamenti non confermati si susseguirono per tutti gli anni quaranta. Secondo alcuni locali, il leone dell'Atlante avrebbe resistito addirittura fino agli anni sessanta quando fu definitivamente annientato dai bombardamenti durante la guerra tra Francia e Algeria.

Reperti conservati[modifica | modifica wikitesto]

Un esemplare tassidermizzato di un giovane maschio, con la caratteristica criniera non ancora sviluppata, è esposto presso il Museo di storia naturale dell'Università di Pisa. La tassidermizzazione di questo reperto risale all'Ottocento e, curiosamente, presenta un "errore": infatti, malgrado i leoni abbiano le pupille rotonde, l'esemplare è stato preparato con occhi dalle pupille verticali (simili a quelle dei gatti).

Possibili esemplari in cattività[modifica | modifica wikitesto]

Un possibile esemplare di leone berbero in cattività.

Tra la fine del XIX secolo e i primi anni del XX secolo, molti esemplari di leoni dell'Atlante furono catturati per essere esibiti in giardini zoologici e circhi itineranti. Esemplari in cattività ritenuti purosangue furono il leone di nome Sultan che visse nello zoo di Londra fino al 1896, e i leoni dello zoo di Lipsia (Edwards, 1996).

Esemplari considerati apparentati con i leoni dell'Atlante sono quelli conservati nel giardino zoologico di Témara presso Rabat. Questi animali sono i diretti discendenti dei leoni del serraglio del sultano Mohammed V del Marocco che sono stati identificati recentemente come ibridi di leone berbero tramite l'analisi comparata del DNA mitocondriale con quella degli esemplari imbalsamati (Barnett, 2006). Tra il 1953 e il 1955, durante l'esilio del sovrano, diciotto leoni del serraglio furono trasferiti dal palazzo reale di Rabat a Meknès per poi ritornare a Rabat con il reinsediamento di Mohammed. Nel 1973 fu creato lo zoo di Témara a cui vennero ceduti tutti i leoni reali. Gli esemplari attuali sono entrati a far parte di un progetto di ripristino e reintroduzione della sottospecie.

Altri dodici leoni discendenti da quelli appartenuti al re marocchino si trovano al Port Lympne Wild Animal Park, uno zoo inglese presso Ashford, nel Kent. Degni di menzione sono altri undici esemplari dello zoo di Addis Abeba discendenti dai leoni del serraglio dell'imperatore etiope Haile Selassie I. Oltre a diversi circhi e al parco nazionale Kruger del Sudafrica, altri giardini zoologici che affermano di possedere esemplari o ibridi della sottospecie sono: Big Cat Rescue di Tampa (Florida); lo zoo di Neuwied (Germania); lo zoo di Madrid; il Longleat Safari Park di Wiltshire (Inghilterra); Parc de la tête d'Or di Lione; gli Zion Wildlife Gardens (un parco in Nuova Zelanda contenente 4 specie di felidi a rischio di estinzione tra cui il leone berbero)

Identificazione genetica della sottospecie[modifica | modifica wikitesto]

In passato si è ritenuto che le differenze nella morfologia della criniera potessero essere usate come tratto discriminante nella definizione di sottospecie del Panthera leo, come il leone berbero. In seguito, venne dimostrato, tuttavia, che il colore e le dimensioni della criniera sono influenzate da numerosi fattori ambientali, come la temperatura.[14]. In particolare, le temperature fredde di alcuni zoo europei e nordamericani contribuiscono allo sviluppo di grandi criniere.[7][15]

Esemplare di leone berbero attualmente esposto al MUSE di Trento

Nel 2005, è stata compiuta una analisi comparata del DNA mitocondriale su campioni di tessuto organico prelevati da 1 gatto domestico e 25 esemplari - viventi e imbalsamati - di tredici sottospecie diverse di tigre e leone (comprese le ossa fossili di due esemplari di Panthera leo spelaea). La determinazione delle distanze genetiche delle sequenze di citocromo b (che è contenuto nel complesso ubiquinolo-citocromo c reduttasi) ha permesso di ricostruire l'albero filogenetico degli esemplari studiati e di distinguere cinque macrocladi: tigri, leopardi, leoni delle caverne (Panthera leo spelaea), leoni sub-sahariani (Panthera leo senegalensis), e leoni berberi-asiatici (Panthera leo persica e Panthera leo leo) confermando la parentela genetica tra leone berbero e leone asiatico e la sua distanza da quello sub-sahariano (Burger, 2006).

La separazione tra il clade sub-sahariano e quello berbero-asiatico si è realizzata tra i 203.000 e 74.000 anni fa (Burger et alii, 2004); quella tra leone berbero e leone asiatico si stima ancora più recente, e conseguente alle variazioni climatiche e ambientali intervenute in Nord Africa nel corso dell'ultima glaciazione würmiana (Burger, 2006). Lo studio ha dimostrato che gli esemplari dello zoo di Neuwied sono particolarmente distanti a livello genetico dal leone sub-sahariano, e, di conseguenza, è molto probabile che possano essere discendenti del leone berbero per la linea di discendenza materna (Burger, 2006).

Un'altra analisi del DNA mitocondriale pubblicata nel 2006 supporta la tesi del leone berbero come sottospecie. I risultati evidenziano, infatti, la presenza di un identico aplotipo in alcuni esemplari imbalsamati ritenuti, secondo altre evidenze, discendenti del leone berbero. L'aplotipo potrebbe dunque fungere da marker molecolare per identificare - ed escludere - altri potenziali leoni berberi (Barnett, 2006). L'analisi mitocondriale effettuata su cinque campioni provenienti dagli esemplari della famosa collezione del re del Marocco, ne esclude, tuttavia, l'appartenenza alla sottospecie per la linea di discendenza materna (Barnett, 2006).

Studi filogenetici hanno condotto altri autori a semplificare ulteriormente la suddivisione cladistica proposta da Burger, riunendo tutti i leoni africani (P. leo azandica, P. leo bleyenberghi, P. leo krugeri, P. leo leo, P. leo nubica, P. leo senegalensis), nonostante le differenze morfologiche in funzione dell'areale, in un'unica sottospecie a cui è stato assegnato il nome scientifico di "Panthera leo leo" e a cui viene affiancata la sola sottospecie asiatica, Panthera leo persica (O'Brien et alii, 1987 ; Dubach et alii, 2005; Urban e West, 2005).[16] Questa classificazione tassonomica non è, tuttavia, pienamente accettata e altri autori contemporanei mantengono ancora la suddivisione tradizionale del leone africano in sei sottospecie (Haas et alii, 2005).[17]

Progetti di reintroduzione[modifica | modifica wikitesto]

Secondo esperti come Nobuyuki Yamaguchi dell'Università di Oxford, la popolarità avuta in passato dal leone berbero come animale da esposizione negli zoo offre concrete speranze di restaurazione della sottospecie tramite la riproduzione selettiva dei discendenti ancora presenti in cattività.

Una prima proposta di reintroduzione dei leoni in un nuovo parco ubicato nell'Atlante marocchino fu fatta già nel 1978, ma non ebbe seguito fino a quando non venne varato il North African Barbary Lion and the Atlas Lion Project sotto la direzione di Yamaguchi.[7]

L'ambizioso progetto era finanziato dall'associazione inglese WildLink International, in collaborazione con l'Università di Oxford, ma è attualmente sospeso per mancanza di fondi dopo il ritiro dell'associazione.

Il progetto si dovrebbe articolare in tre fasi, delle quali solo la prima fase è stata parzialmente completata.

La prima fase è consistita nell'analisi del DNA dei campioni di osso prelevati dai leoni berberi imbalsamati conservati in alcuni musei di storia naturale europei come quelli di Bruxelles, Parigi e Torino. Lo scopo era quello di ottenere una mappa filogenetica che permettesse di identificare precisamente la sottospecie e determinare il grado di ibridazione degli esemplari in cattività. Questa fase ha permesso a Yamaguchi di individuare degli ibridi di leone berbero tra gli esemplari dello zoo di Témara.

Nella seconda fase del progetto, gli individui con la maggiore affinità genetica alla sottospecie originale saranno incrociati in modo selettivo al fine di riottenere degli esemplari di leone berbero da reintrodurre (terza fase) in un parco naturale nelle montagne dell'Atlante.

Nonostante il ritiro di Wildlink International, Yamaguchi e il suo staff hanno deciso di proseguire per conto proprio creando l'associazione Preservation Station e stanno cercando i finanziamenti necessari.

Progetti simili, ma più indietro nello sviluppo, sono quelli dell'Università del Michigan, diretto da Dan York, e quello dell'associazione italiana Asae-onlus, diretto da Renato Mariani dell'Università di Chieti.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b S. A. Black, A. Fellous, N. Yamaguchi e D. L. Roberts, Examining the Extinction of the Barbary Lion and Its Implications for Felid Conservation, in PLOS ONE, vol. 8, n. 4, 2013, p. e60174, Bibcode:2013PLoSO...860174B, DOI:10.1371/journal.pone.0060174, PMC 3616087, PMID 23573239.
  2. ^ a b Bauer, H., Packer, C., Funston, P. F., Henschel, P. e Nowell, K., Panthera leo, 2016, p. e.T15951A115130419.
  3. ^ Secondo la classificazione filogenetica operata da alcuni autori, le sei sottospecie africane vengono considerate un'unica sottospecie a cui è stato assegnato il nome scientifico di Panthera leo leo (O'Brien et alii, 1987; Dubach et alii, 2005. In Panthera Leo. IUCN 2010; citato anche in Panthera Leo, Animal Diversity Web, Università del Michigan).
  4. ^ Harper, 1945; Guggisberg, 1961; Nowell e Jackson, 1996; Van den Hoek, Ostende 1999; Yamaguchi e Haddane, 2002.
  5. ^ Leyhausen 1975; Yamaguchi e Haddane, 2002.
  6. ^ Kosmos, il nuovo museo di storia naturale di Pavia, su panorama.it.
  7. ^ a b c Yamaguchi, N. & Haddane, B. The North African Barbary lion and the Atlas Lion Project. International Zoo News 49, pp. 465-481, 2002.
  8. ^ https://archive.org/stream/adventuresofgera00grrich#page/22/mode/2up
  9. ^ http://images.yuku.com.s3.amazonaws.com/image/png/ca6de268276549359845a4bfe391ef57.png
  10. ^ https://news.google.com/newspapers?id=A-MyAAAAIBAJ&sjid=1QAGAAAAIBAJ&pg=3641,6045584&dq=tiger+lion+fight+1899&hl=en
  11. ^ Heptner, V. G., Sludskij, A. A. (1992) [1972]. "Lion". Mlekopitajuščie Sovetskogo Soiuza. Moskva: Vysšaia Škola [Mammals of the Soviet Union. Volume II, Part 2. Carnivora (Hyaenas and Cats)]. Washington DC: Smithsonian Institution and the National Science Foundation. pp. 83–95.
  12. ^ Kevin White and David J. Mattingly (2006), Ancient Lakes of the Sahara, vol. 94, American Scientist, pp. pp.58-65.
  13. ^ https://www.theguardian.com/notesandqueries/query/0,5753,-1775,00.html
  14. ^ P. M. West e C. Packer, Sexual Selection, Temperature, and the Lion's Mane. In «Science» 297, pp. 1339/1343, 2002
  15. ^ R. Barnett, N. Yamaguchi, I. Barnes e A. Cooper, Lost Populations and Preserving Genetic Diversity in the Lion Panthera leo: Implications for Its Ex Situ Conservation. In «Conservation Genetics», 2006.
  16. ^ Panthera Leo, IUCN 2010; Panthera Leo, Animal Diversity Web, Università del Michigan.
  17. ^ «In their review in Mammalian Species, Haas et al. (2005) recognized six African subspecies, although these were not subject to analysis». In Panthera Leo, IUCN 2010

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Peter Maas, Panthera Leo Leo
  • R. Barnett, N. Yamaguchi, I. Barnes & A. Cooper, in Conservation Genetics, 2006.
  • Burger J, Rosendahl W, Loreille O, Hemmer H, Eriksson T, Götherström A, Hiller J, Collins MJ, Wess T, Alt KW, Molecular phylogeny of the extinct cave lion Panthera leo spelaea. Mol Phylogenet Evol 30, pp. 841–849, 2004.
  • J. Burger e H. Hemmer, Urgent call for further breeding of the relic zoo population of the critically endangered Barbary lion (Panthera leo leo Linnaeus 1758). European Journal of Wildlife Research, Volume 52, n° 1 (marzo 2006), pp 54–58. Testo integrale in .pdf.
  • C. A. W. Guggisberg, Simba: the life of the lion. Howard Timmins, Città del Capo, 1961.
  • F. Harper, Extinct and Vanishing Mammals of the Old World. American Committee for International Wild Life Protection, New York Zoological Park, New York 1945
  • P. Leyhausen, Preliminary report on the possibility of a breeding programme for the Atlas lion at Temara Zoo, Morocco. International Zoo News 21, pp. 22–23, 1975
  • Nowell, K. and Jackson, P. Wild Cats. Status Survey and Conservation Action Plan. IUCN/SSC Cat Specialist Group. IUCN, Gland, Svizzera 1996
  • O'Brien, S.J., Martenson, J.S., Packer, C., Herbst, L., De Vos, V., Joslin, P., Ott-Joslin, J., Wildt, D.E., and Bush, M. : Biochemical genetic variation in geographic isolates of African and Asiatic lions. National Geographic Research 3, pp. 114–124, 1987
  • Preservation Station, 2005 (www.barbarylion.com)
  • Van den Hoek Ostende, L.W. 1999. Lion - Slowly ticking away - 300 Pearls - Museum highlights of natural diversity. Museo nazionale olandese di storia naturale
  • Yamaguchi, N. & Haddane, B. The North African Barbary lion and the Atlas Lion Project. International Zoo News 49, pp. 465–481, 2002.
  • Yamaguchi, N. The Barbary lion and the Cape lion: their phylogenetic places and conservation. African Lion Working Group News 1, pp 9–11, 2000.

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